Passa ai contenuti principali

Aspettando Godot a Tokyo

La scoperta novecentesca del Leopardi filosofo

di Remo Bodei (2017)

[...] Leopardi si inserisce nella tradizione filosofica italiana, che è quella di una filosofia civile, che ha dato il meglio di sé nelle discipline pratiche che non richiedono il rigore teorico degli scolastici o dei tedeschi. 
Punto di partenza della riflessione Leopardiana è la società del presente, nella quale riconmosce i segni dell’incipiente società di massa: Leopardi si chiede: in una società dove siamo tutti indistinguibili come uova, come si spiega l'individualismo? Leopardi nota due aspetti:


- Legame ragione-egoismo. La ragione moderna è solo distruttiva,
- Legame filosofia-egoismo. L'egoismo di cui accusa i giacobini è frutto del calcolo, dell'interesse.
(vedi anche Dialogo della Natura e di un Islandese)

Allora chi non ragiona e filosofeggia è più più felice? (Vedi il garzoncello del Sabato del Villaggio?) No. Un filosofo non dimezzato deve conoscere le illusioni e le passioni. Analogamente il poeta deve conoscere la natura e l'uomo. Ognuno al suo posto però.
Nella fase iniziale del pensiero leopardiano le illusioni sono opposte alla ragione. Poi all'apparir del vero le cose cambiano. Leopardi si rende conto che nel mondo sono cambiate le illusioni. Nella Firenze del 1825 le illusioni sono quelle del progresso.
Non è questione di essere reazionari o progressivi. Leopardi non odia le macchine e la modernità in sé, ma riconosce le conseguenze della società industriale sull'uomo. (I Luddisti infatti nacquero nel 1811 e Balzac ben fotograferà il prezzo fatto pagare dalla società moderna).
Di queste illusioni si può fare a meno. Piuttosto è preferibile una razionalità che non detragga niente al male. 
Diceva bene Timpanaro quando sosteneva che la concezione della Natura è in Leopardi non cambia: è quella che i geologi del tempo definivano Natura plutoniana o vulcaniana (L'altra teoria geologica dell'Ottocento era quella di una tranquilla natura nettuniana) “Fumavano gli Appennini come adesso fumano Vesevo e Mongibello" si legge nei Paralipomeni. La Terra partorisce e nutre, ma lo stesso nutrimento è quello che ci stermina. 
Leopardi quindi pensa che la società di massa è quella della semplificazione, ché non si legge più roba più lunga di due pagine. Va bene per la società delle nuove illusioni. Ma noi dobbiamo consociarci contro tutto questo
Oggi quelle "macchine al cielo emulatrici" sono per noi pericolose, perché la quarta rivoluzione industriale rischia di distruggere il lavoro umano.

La vita dei giovani giapponesi accerchiata dalla tecnica



I giovani (parliamo principalmente di teenager e ventenni) che hanno vissuto in Giappone nell’ultimo quarto di secolo, dallo scoppio della “bolla speculativa” degli inizi anni Novanta fino a oggi, sono stati battezzati dai media “New Lost Generation”, nuova generazione perduta. Perduta, perché per la prima volta nella storia recente del paese i giovani hanno accusato una pesante flessione nelle assunzioni (anche se il loro tasso di disoccupazione si aggira sempre intorno al 5%, non paragonabile alle cifre alle quali siamo abituati in Italia), e sembrano caduti in una depressione cronica senza più riuscire a nutrire alcuna speranza concreta nella loro vita. Si dice che la loro apparente allegria sia la maschera della vacuità sottostante, ed è come se non avessero più fiducia nel loro futuro. 
In realtà, non è “una” generazione, si tratta ormai di più generazioni. I primi ad esserne coinvolti avranno oggi quasi cinquant’anni. Oggi infatti possiamo osservare tre fenomeni storici ben distinti che riguardano la gioventù nipponica, diversamente distribuiti nell’arco degli ultimi 25–30 anni. Il primo fenomeno riguarda i giovani che sin dagli anni Ottanta hanno iniziato a radunarsi in un quartiere di Tokyo bardati in costumi/vesti a dir poco improbabili. Qui li vediamo nelle fotografie scattate da Oliviero Toscani nel 1999. Il secondo fenomeno in realtà non è legato a un periodo definito, perché è sempre esistito per tutto questo tempo, anche se la sua percezione è molto cambiata negli ultimi anni. Si tratta degli hikikomori, adolescenti che decidono di auto-rinchiudersi nella loro stanza non uscendo più da casa, a volte per anni. Ormai se ne contano circa un milione, quasi una vera piaga sociale. Il terzo fenomeno riguarda gruppi di studenti universitari che inaspettatamente in questi ultimi anni stanno tentando di risvegliare la coscienza politica dei cittadini rimasti a lungo in completo letargo in quel paese.

Ma quando osserviamo da vicino la sensibilità e le emozioni di questi giovani, e soprattutto quanto la società giapponese altamente dominata dalla tecnica, creata dai loro padri, abbia addomesticato, plasmato e distorto la loro vita, e quanto e come la loro vitalità abbia resistito in questi decenni sotto la pressione della volontà della tecnica più estrema del mondo, non possiamo non pensare alle somiglianze con le opere di Samuel Beckett. Anzi, sembra quasi di vedere nella realtà quelle figure beckettiane che tanto ci sembravano irreali. Alcuni di questi giovani ricordano Estragon di Aspettando Godot, altri Hamm di Finale di partita, ma anche quei personaggi quasi catatonici che ascoltano impotenti le voci che arrivano nella loro testa, come nell’opera televisiva Di’ Joe o in alcune prose tardive. Se l’autore irlandese avesse visto il Giappone di quest’ultimo quarto di secolo, avrebbe sicuramente esclamato: “Diavolo, questo paese sembra uscito dalla mia penna!”
In realtà, una reazione di riconoscimento simile l’avevano avuta già molti anni fa, negli anni Cinquanta, gli spettatori-detenuti che assistettero alle rappresentazioni di Aspettando Godotnella prigione di Lüttringhausen, in Germania (1953), e in quella di San Quentin negli USA (1957). Per quei detenuti “incolti”, la pièce che sembrava incomprensibile e aveva generato scandalo tra gli intellettuali di Parigi era chiarissima e persino commovente. Per loro, semplicemente, parlava della loro vita. Perché il tema dell’attesa li riguardava, eccome. La vita del detenuto è scandita da innumerevoli attese, del pasto, del riposo, dell’arrivo della posta, del colloquio, della fine della pena o del giorno dell’esecuzione capitale. Altro che teatro dell’assurdo, quella era la loro storia, quasi realistica. Il detenuto regista che mise in scena la pièce a Lüttringhausen, pochi mesi dopo la prima mondiale di Godot a Parigi, così scrisse all’autore: “Il suo Godot fu il ‘Nostro’ Godot, proprio nostro!” 

Beckett non ha mai descritto una vera prigione, ma i suoi protagonisti, per dirla con le parole di Peter Brook, sono tutti prigionieri inconsapevoli della propria prigionia, e questo sia nelle opere teatrali che nelle prose. Beckett sapeva esattamente di che materiale era fatta quella prigione. Era fatta della “tecnica” del bio-potere, lo stesso che ha generato il sistema carcerario moderno e la società contemporanea capitalista industriale. Non è un caso che in alcune pièce teatrali i mezzi tecnici per luci, suoni e immagini assumano significati simbolici ben aldilà dall’essere semplici strumenti per ottenere un effetto scenico. Nel mondo beckettiano, la macchina domina l’uomo. All’interno della sua scatola della tecnica (testo, scena, filmato), soprattutto nelle opere tardive, la tecnica e la forma diventano mostruosamente più forti e schiacciano la vita dell’uomo che perde gradualmente voce, parole e pensieri. Quando osserviamo da vicino i giovani giapponesi, sembra di assistere nel mondo reale a questi ultimi paesaggi beckettiani. 
Prima di parlare dei nostri giovani protagonisti, però, iniziamo con l’impalcatura della società creata dai loro genitori, all’interno della quale si svolge una scena beckettiana lunga un quarto di secolo. 

Sistema cresciuto fino al suo limite

Alla fine del secolo scorso il Giappone aveva costruito una società della tecnica quasi perfetta, raggiungendo una forma di capitalismo industriale estremamente sofisticata il cui sistema omologato e super razionalizzato richiedeva ai suoi componenti di operare con velocità e precisione altrove irraggiungibili, tutto a favore dell’economia e a discapito di tutto il resto. Come già scritto in un altro articolo pubblicato su questo sito, in Giappone ogni commessa o impiegato pubblico ti accoglie dicendo prima di tutto Omatase shimashita (Scusi per l’attesa) anche quando non hai aspettato nemmeno cinque secondi. Ormai è un modo di dire, lo si dice comunque, quasi al posto del buongiorno, anzi, possiamo dire che l’instancabile sforzo di eliminare l’attesa ha modificato perfino il lessico più quotidiano.
Tuttavia, nel caso del Giappone, l’eliminazione dell’attesa non ha liberato l’uomo contemporaneo dalla prigione dell’attesa che è, come Beckett aveva ben capito, uno stato in cui l’uomo è privo della possibilità di agire soggettivamente. Quando si aspetta, che sia Godot o quant’altro, in realtà ti stanno facendo aspettare. L’attesa non è un atto attivo, ma passivo. La tua volontà non conta. Ti trovi fondamentalmente in balìa di decisioni altrui, proprio come i detenuti di una prigione. Per di più, l’eliminazione dell’attesa in Giappone ha contribuito a rinchiudere l’uomo ancora più strettamente in un’altra prigione, quella dell’efficienza. Sia chi offre servizi che chi li riceve, tutti sono obbligati ad agire alla velocità rapidissima che la società richiede, esattamente come in Quad. Il video che riprende il balletto matematico che segna l’apice della ricerca artistica di Beckett, datato 1981, vede i quattro “camminatori” costretti a percorrere infinitamente con passi precisi e sostenuti i percorsi stabiliti (lati e diagonali) di un’area quadrata secondo rigorose combinazioni matematiche. Nel flusso infernale del balletto beckettiano non sono loro a voler camminare, c’è una forza esterna che li costringe a restare dentro quel flusso di movimento. Ed è la stessa forza che spinge i businessmen giapponesi a correre instancabilmente nella loro routine quotidiana....

Commenti

Post popolari in questo blog

Cori descrittivi di stati d’animo di Didone, Giuseppe Ungaretti

Da lechat93.wordpress.com [...] un suggestivo viaggio alla scoperta di Giuseppe Ungaretti, quello più complesso e allegorico. Le sue parole dicono sempre di più di quel che sembra, chiaro, l’avevamo capito, ma che potesse arrivare a tanto non l’avrei mai immaginato. Classicità e modernismo, Virgilio e Leopardi, Tasso e Freud.. Che dire..ce ne sarebbero di cose da dire. Forse un giorno (magari a luglio) metterò insieme gli appunti di oggi perché ne vale davvero la pena! Per il momento non posso far altro che riportare le parole di Ungaretti che nascondono così tanti significati e, ancora una volta, essere felice. Perché sarà sciocco ma queste cose mi fanno sentire viva, privilegiata, fortunata e estremamente felice. * dimenticavo.. ecco come Ungaretti parla della sua opera: “Sono 19 cori che vogliono descrivere drammaticamente il distacco  degli ultimi barlumi di giovinezza da una persona, oppure da una  civiltà, poiché anche le civiltà nascono, crescono, declinano e  muoiono. Qu

La bottega dello storico: l'incoronazione di Carlo Magno

Lo Storico è lo scienziato che si occupa  di scrivere la storia degli avvenimenti che hanno coinvolto l’umanità. Come fa? Come lavora uno storico? Innanzitutto va chiarito che lo storico scrive la sua interpretazione dei fatti basandosi sulle fonti storiche. Il procedimento si articola in cinque fasi: Si ricercano le fonti   Si analizzano le fonti e si stabilisce se sono vere o false  Si catalogano documenti e reperti, si determina la loro provenienza e se ne propone una datazione.  Si confrontano le fonti  Si collocano i fatti in ordine cronologico e se ne propone un'interpretazione. raccontano. 25/12/800: L'incoronazione di Carlo Magno, un confronto tra le fonti  a cura di Camilla Galeazzi e Kevin Paoltroni L’evento dell’incoronazione è ampiamente documentato, ma sul modo in cui questa avvenne le fonti presentano per ognuna sfumature e particolarità di notevole interesse. Dell’incoronazione imperiale possediamo sei diversi resoconti. Quattro di

Lezione V: Primi documenti e primi testi in volgare

https://www.raiplay.it/video/2017/03/Il-tempo-e-la-Storia---La-nascita-della-lingua-italiana-del-13032017-a63a8cc8-b540-4a85-876d-d26a4d23afd7.html Tra latino e italiano: i primi documenti in volgare  (da  Luzappy.eu  e altri) La frantumazione politica dell’Impero romano non distrusse la cultura lati­na, intesa qui come lingua quotidiana; aggiunse invece elementi nuovi, per trasformare sempre più, nonostante la volontà frenante della scuola e dei grammatici, il sistema linguistico. Anche i Longobardi furono veicolo di novità, fin quando nel 774 Carlo Magno li sconfisse, per poi rifondare l’impero, volendo ricom­porre l’unità politica, religiosa, culturale (e, perciò, linguistica). Ma una lingua non si impone; il popolo, disperso nelle campagne dei feudatari o accolto nelle corti, continuò a sentire sempre più incomprensibile il latino, che proprio per la riforma carolingia, diventava «altra lingua» rispetto a quella parlata dalle masse ed ormai era soltanto la lingua ufficiale